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L U I G I   M E R L O

Opere 1985-1999

 

di Luca Baldin

 

"Se esiste una aristocrazia del fare artistico, una purezza che coinvolge anche fattori e valori d'ordine morale, questa è dotazione e patrimonio degli incisori". Così scriveva nel 1990 il compianto Pier Carlo Santini nell'introduzione al catalogo della Seconda Biennale nazionale di incisione "Alberto Martini" di Oderzo[1], e questo è anche ciò che penso, accingendomi al lavoro rischioso di tirare le somme dell'attività venticinquennale di un artista schivo e raffinato come Luigi Merlo, con l'obiettivo limitato di fare il punto su ciò che può ragionevolmente rappresentare un primo approdo possibile della sua arte, e cioè le sorprendenti lastre dell'ultimo quindicennio. Un corpus di opere che non possono essere estrapolate artificiosamente dall’insieme delle oltre trecento fin oggi solcate dalla sua mano abile, ma che rappresentano senz'altro la fase matura di un linguaggio, quella più autonoma ed originale, affermatasi perentoriamente sul crinale degli anni Ottanta con l'azzardo di mollare gli ormeggi dal riparo sicuro della tradizione incisoria veneta..

 

Di Luigi Merlo e del suo delicato universo poetico è già stato peraltro scritto molto, ed io stesso ho avuto alcune occasioni per segnalarne la qualità e tentar di formulare ipotesi di lettura che potessero aiutare a comprenderne, almeno un po', spessore e ragioni. Non ho mai peraltro avuto la presunzione, che non ho nemmeno in questa circostanza, di spiegare ciò che non è spiegabile, o meglio, che da solo si spiega, che è il miracolo ripetuto della creazione artistica.

 

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Questa breve digressione non può quindi partire che da quanto che in questo libro non c'è, e cioè il perché del primo approccio di Merlo ad un ambito da cultori qual è quello della calcografia. La domanda, tutt'altro che oziosa, è infatti che cosa possa spingere oggi un artista - che da un secolo oramai dispone della totale libertà d'espressione, sotto il profilo tanto dei mezzi espressivi che dei contenuti - all'autolimitazione "monacale", per parafrasare Licisco Magagnato[2], della lastra di zinco. Il primo nodo da sciogliere in altri termini è capire se tale scelta debba essere intesa come timore d'osare o come una qualche forma d'inattualità. Dirò subito allora, a fugare ogni dubbio, che non credo affatto che il problema possa essere posto in questi termini, anzitutto perché proprio la libertà d'espressione di questo scorcio di secolo non consente di negare cittadinanza (e quindi attualità) ad alcuna forma espressiva; poi perché la semplificazione critica ingenerata dalla presunta centralità dell'avanguardia ha già lasciato il posto non tanto a stucchevoli revisionismi, quanto a ben più necessitati recuperi delle molteplici "lateralità" che popolano la storia artistica del Novecento; infine perché se è vero, come afferma sempre il Magagnato, che sovente si è verificata una coincidenza tra le grandi voci della pittura e le più autorevoli proposte nel campo incisorio, con la conseguenza di considerare la grafica d'arte come un'attività minore e accessoria alla pittura stessa, è anche vero che il mondo specialistico della calcografia oltre allo stuolo di eccellenti artigiani perpetuatori di una secolare tradizione (senz'altro utili nella ricostruzione di una storia del gusto), annovera anche un campionario non trascurabile di autentici artisti che sulla lastra hanno saputo lasciare non "una" delle tracce del loro operare, ma senza dubbio la più rimarchevole. Si vuol dire cioè - e non sorprenda - che vi sono numerosi maestri che proprio dal rigoroso bianco e nero dello zinco acidato e inchiostrato hanno cavato assai più che dalla libertà del colore e delle forme. Senza timor d'incorrere in bestemmie e per non spostarsi troppo addietro questo ragionamento par valido - non ci si scandalizzi - per il buon Fattori, per non dire stringendo il campo temporalmente e geograficamente dei nostri Bianchi Barriviera e Barbisan.

In altri termini si vuol dire che come si riconosce da sempre un'autonomia linguistica alle cosiddette arti maggiori, e da qualche tempo anche a quelle presunte "minori" (di Picasso vale di più un quadro, un disegno o una delle straordinarie ceramiche di Vallauris…?), così andrà una buona volta riconosciuta la peculiarità del lavorar di bulino come campo specifico, e per certi versi autonomo, del fare arte. Incidere non vuol dire infatti né disegnare, né tanto meno dipingere; e soltanto la malintesa peculiarità di questa forma espressiva può aver condotto a considerarne in tempi recenti le sole potenzialità "funzionali" (al mercato!), cioè la possibilità di truffare il prossimo coi cosiddetti "multipli d'artista", ottenuti con poca fatica (la firma) fotoriproducendo opere nate per diversi medium nella totale indifferenza per la specificità della téchne.

 

Il dedicare la propria vita alla lastra incisa è quindi già di per sé una scelta che dice molto di un artista; una scelta di nicchia, riservata, lontana dalle grancasse e dalle fanfare dell'arte ufficiale che in altri tempi si sarebbe detta forse arte di corte. La calcografia è viceversa - come ricordava Santini - un'arte aristocratica, non in superficie ma nel profondo, un modo d'esprimersi rivolto ai connaisseurs, ai raffinati indagatori del segno, a quanti - e son rimasti pochi ahimè - sanno distinguere la chiarezza della traccia di un'acquaforte dalla morbida delicatezza di una puntasecca e col contafili in mano si scambiano una compiaciuta occhiata d'intesa.

E' una strana scelta, quindi, fare l'incisore, come Luigi Merlo: a mezza strada tra l’aura dell’unicità cui non si vuol rinunciare e la rivoluzionaria democrazia del multiplo; antica anch'essa a dir il vero e la cui funzione di "media" ante litteram non può esser mistero per chiunque abbia bazzicato, anche solo da amatore, i territori dell'arte rinascimentale, al di qua e al di là delle Alpi. Ma lo scegliere, come ha fatto Merlo, l'espressione grafica in esclusiva e non soltanto come uno dei molti possibili mezzi da sfruttare per dar corpo alla propria poetica, è ancora qualche cosa di più: è a mio giudizio la straordinaria forza di imporsi un limite - quello del mezzo tecnico - e fuggire così dal rischio, mai stato così reale e concreto, dell'arbitrio; darsi un campo d'azione, per certi versi finito, è perciò da intendersi come tutt’altro che un timore d’osare, bensì come una sfida la cui lealtà è data dalle regole del gioco; ma è anche ripudiare il delirio d'onnipotenza che sovente ci coglie in questi anni fin de siècle: è il coraggio di guardarsi in faccia e riconoscere i limiti entro i quali si esprimono le straordinarie potenzialità della nostra esistenza.

L'accogliere il vincolo del mezzo espressivo come "occasione", non ha mai condotto peraltro Merlo - se non forse agli esordi della sua carriera - a considerare l'arte calcografica come un discorso chiuso, una stanza senza porte o finestre, un luogo che affoga nell'ortodossia. Se l'ambito è identificato e se le regole deontologiche sono accettate, egli - quasi per orientamento poetico - sembra anche rifuggire dalle rigidità che troppo spesso hanno contrapposto i puristi dell'acquaforte agli eclettici della lastra in uno scontro sterile - un po' come , mutatis mutandis, si contrapposero i cultori del jazz classico a quelli del bep bop -, e che proprio nel frenato rinnovo ha probabilmente concesso spazio alle furbate fotolitografiche.

Una lezione di libertà e rigore al tempo stesso quindi, che si traduce prontamente in insegnamento. Lui, uomo di poche parole, la cui presenza è talvolta persino sfuggente tant'è la leggerezza del suo muoversi estraneo ai protagonismi, si scopre "maestro" nel trasmettere la sua enorme passione per quel torchio a stella che gelosamente conserva in casa, poco fuori le mura di Cittadella, aprendo le porte dello studio a tutti coloro, giovani e meno giovani, vogliano didatticamente provare l'ebbrezza di procedere alla morsura, di inchiostrare la lastra e di sollevare il feltro per verificare sulla carta umida il risultato, nelle convinzione profonda che solo così essi potranno comprendere - e noi con loro - cosa significhi davvero far grafica d'arte: e cioè che ogni volta è sempre la prima volta.

 

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La “prima volta” di Luigi Merlo fu entro i solchi collaudati della grande tradizione paessaggistica veneta, identificata nella importante lezione di Giovanni Barbisan, con i necessari rimandi a Morandi e Bartolini: i due poli imprescindibili dell'incisione novecentesca italiana. Ma quello di venticinque anni fa fu soltanto un punto di partenza, un modo per fissare alcuni punti fermi, prevalentemente qualitativi, che mai verranno meno.

E proprio sul piano qualitativo, in fase preliminare, almeno un altro riferimento andrà considerato, quello al poeta ed editore Bino Rebellato. E' infatti la sua vicinanza negli anni fecondi della formazione a spalancargli gli orizzonti di inediti universi lirici, che se da un canto si concretizzano nella pubblicazione di una non disprezzabile raccolta di versi[3] - che fa idealmente percorrere a Merlo una strada inversa a quello dell'io narrante del Manuale di pittura e calligrafia di José Saramago[4] -  dall'altro dicono forse di più di quanto non sembri sulla sua poetica. L'atteggiamento lirico di fronte alla realtà è infatti dato quasi imprescindibile nell'analisi della sua opera, che si esplicita nella profonda capacità di sondare le potenzialità del linguaggio e nell'azzardo di forzarne la natura, in uno sforzo sì autoreferenziale, ma che non ne limita affatto il valore universale, se è vero, com'è vero, ciò che ebbe occasione di affermare Andrea Zanzotto parlando di Virgilio Guidi (un pittore, sarà un caso?): e cioè che non è data poesia che non parli anche (o solo?) di sé stessa.

E' dalla poesia quindi che Merlo trae la capacità di indagare le cose del mondo senza necessariamente raccontarle, sfruttando il medium della propria coscienza; e questa è l'impronta dominante del suo primo operare: il processo di identificazione con un luogo - Cittadella, il Brenta - e quindi con una storia; il processo romantico, prima che espressionista di deformazione del reale, che progressivamente lo allontana dal virtuosismo segnico di Barbisan avviandolo verso i lidi meno sicuri della sperimentazione e della non figuralità.

 

Il riferimento ad un atteggiamento "romantico" di fronte ai moti dell'animo e al reale non è casuale. Se si vuole spiegare la repentina virata che dal 1986 conduce Merlo verso i risultati che sono esaurientemente illustrati in questa pubblicazione, occorre a mio parere tentare un collegamento, che potrà apparire forzato ma non lo è, con la grande rivoluzione filosofica romantica e tardo romantica, da Hegel a Nietzsche, che produce qualche decennio dopo la svolta pittorica astratta di Kandinsky e Klee.

E' a volerlo sintetizzare, col rischio concreto di banalizzarlo, il passaggio cruciale dalla grande narrazione storica ottocentesca, ad un nuovo atteggiamento prevalentemente lirico, che condurrà ad una poetica del frammento che rappresenta oggi una chiave di lettura possibile del nostro secolo breve. Hegelianamente è l'oggettività che inizia a svaporare, è la cancellazione progressiva della spazialità a favore della durata temporale, che conduce al primato della poesia (Hegel) e della musica (Schopenhauer) come regine delle arti in quanto tra tutte le più spirituali. L'esaltazione da parte di Nietzsche del mondo apollineo, contrapposto alla ragionata decadenza socratica, compirà infine la svolta verso quell'esaltazione della soggettività che è premessa ad ogni sviluppo artistico del Novecento e che troverà un inatteso sviluppo nei testi teorici di Vassily Kandinsky[5].

Già Guido Perocco[6] aveva argutamente segnalato vicinanze con l'universo di Klee e segnatamente l'idea che il nostro viva una qualche liaison con l'universo musicale, o meglio e più puntualmente che egli prosegua il progetto del grande tedesco di "metamorfosi" dalla pittura alla musica. Ed a conferma in Merlo è senz'altro viva l'idea che la musica - con il suo fluire puramente temporale, la sua possibilità di far a meno della prosaica rappresentazione - così come la poesia più pura, intesa come ritmica del verso e colore della parola, meglio si presti di altre forme d'arte a raffigurare quei Paesaggi dell'anima[7] ai quali egli apertamente aspira e che sembra infine voler definire - quasi per scommessa - sulla lastra incisa, compiendo un ulteriore piccolo passo lungo il sentiero tracciato idealmente da giganti del calibro di Wols, Masson, Pollock.

 

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La prima traccia dell'intaccarsi delle certezze cartesiane che Merlo aveva espresso, pur originalmente, all'indomani della sua specializzazione al Centro Internazionale della Grafica di Venezia e fino al 1986, è riscontrabile nell'eccellente tavola che apre questo volume, dal titolo Orizzonte due; l'opera, giustamente indicata dal Goldin[8] come uno dei lavori più significativi fino a quella data, sarebbe ancora un tradizionale per quanto raffinato esercizio grafico attorno alla natura e al paesaggio, se non irrompesse al centro della lastra, con una violenza inaudita, una cesura, un vuoto di un candore abbacinate che lascia attoniti e che appare col senno di poi l'archetipo dei contrasti musicali - dei contrappunti verrebbe da dire - tra i fondi lavorati sapientemente con l'acido e i bagliori rigonfi e divertiti che animano le opere più recenti.

La storia che si legge attraverso la sequenza di immagini proposte in questo volume, sembra quasi la testimonianza di un lento e progressivo librarsi, uno sciogliere il legame gravitazionale con la terra alla ricerca di qualche cosa di più lieve, come l'aria, come l'anima. La Rivisitazione del 1987 ne è il primo segnale: lo sguardo si è alzato, la visione è divenuta improvvisamente zenitale, ma la ripresa del greto del Brenta appare ancora acerba, quasi geografica; più che un risultato quest'opera appare come un'improvvisa illuminazione, un crogiolo di possibilità: la linea serpentinante del fiume, i tagli geometrici dei campi, qua e là segnati da una impercettibile variazione cromatica che li rende oggetti autonomi, il cerchio delle mura di Cittadella…

Ma è I Canti della terra II , opera dello stesso anno, che ci sorprende per la maturità del linguaggio: se ci trovassimo al cospetto di un artista scomparso e in mancanza di documentazione, la filologia e il senno di poi (così fallace) ci porterebbero infatti e tranquillamente a spostarne la cronologia in avanti di almeno un quinquennio: l'irruzione del colore - un giallo incandescente - è come un desiderio insoddisfatto, una scintilla di brace che freme nell'aria a si smorza.

Nel triennio successivo non vi è traccia del coraggio e della chiarezza di quest'opera, che lascia il posto ad un più meticoloso svolgimento del discorso iniziato. Già nella titolazione la serie Quasi un paesaggio sembra infatti una dichiarazione d'intenti: quella di non produrre fughe in avanti; se i Canti della terra indicano oltre ogni dubbio l'obiettivo della ricerca, resta da colmare il vuoto che tale opera ha aperto rispetto alla tradizione incisoria veneta. La produzione compresa tra il 1988 e il 1990 costituisce quindi una sorta di sviluppo ed esaurimento delle tematiche precedenti. Il segno si fa libero e spregiudicato, gli orizzonti si confondono in prospettive sempre più improbabili; Interno brentano II appare dinamicamente violento nel distruggere ogni ordine, con analogie evidenti alla simbologia delirante di un Giuseppe Zigaina. Poi, parafrasando Del Giudice, Merlo stacca l'ombra da terra, riprende le Rivisitazioni e le porta a maturità: lentamente i campi, le linee del territorio diventano pretesti segnici, grandi incisioni della storia sul piano terrestre, che nessun dio a mai immaginato di stampare. La geografia diventa Texture (1990), e quando Merlo produce il suo Ritorno al fiume, il Brenta è oramai soltanto un ricordo lontano, una trasfigurazione della natura nell'arte, come avrebbe detto Cooramaswamy [9].

 

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Sono poco incline a giustificare legami troppo stretti tra convinzioni filosofiche, religiose o ancor peggio scientifiche e il prodotto giornaliero degli artisti: il più delle volte mi paiono pretesti estranei alla linguistica dell'opera, deboli motivazioni; se l'opera di Kandinsky non fosse stata di per sé della qualità che appare con evidenza ancor oggi alle pareti dei musei di mezzo mondo, il suo Lo spirituale nell'arte sarebbe poco più che una curiosità per letterati eccentrici. Ecco perché se ha un senso per chi scrive fornire riferimenti utili alla lettura di un percorso artistico, non va mai smarrito il senso primo di tale lavoro, e cioè il valore anzitutto testimoniale della qualità di un'opera, che come ho già detto è di per sé in grado di esprimere la propria "necessità".

E' una premessa importante, perché nell'avventurarci ad analizzare l'ultima fase dell'attività di Merlo, il rischio conclamato può essere quello di scantonare in voli pindarici attorno a filosofie orientali o quant'altro si possa immaginare, traviati magari da una lettura superficiale o dalla titolazione dei lavori, per altri versi affascinante.

 

Lo scarto, la cesura, si ha con i Paesaggi musicali del 1992, nei quali il riferimento all'arte di Euterpe diventa una sorta di passe-partout, il grimaldello necessario a concludere il traghettamento verso il non figurale. La sensazione è che Merlo con queste lastre non abbia voluto tradurre la musica in forma visibile, ma semmai verificare la possibilità di uno spostamento della polarità dall'universo spaziale a quello temporale; non tanto abbandonare i luoghi, quindi, ma tradurli in ritmi e in armonie, costringerli entro i righi di un ideale pentagramma.

Già Zoran Music a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta aveva saputo riformulare il proprio universo sognante e pietroso in affascinanti traslitterazioni ritmiche: certe operazioni di Luigi Merlo, pur con tutte le differenze che quasi mezzo secolo di storia trascorsa implicano, a tratti mi ricordano quelle opere, quella semplificazione segnica, quel lavorar per simboli, per sedimenti della memoria.

Parallelamente la consapevolezza e la maturità raggiunte sul fronte della tecnica rendono il campionario degli strumenti tradizionali del calcografo una camicia troppo stretta, ed egli non esita a spezzarla, a farla esplodere, inserendo varianti realizzative ardite che gonfiano la carta, la portano innaturalmente a conquistare una terza dimensione che non le è propria, rompendo schemi e consuetudini.

Non è una strada semplice, quella intrapresa alfine da Luigi Merlo, ma non staremmo a parlarne se non potessimo già constatarne la qualità, come nella serie dei Luoghi e Ritmi, in Stato Felice, Bianconero, Il pensiero Verticale, la Luna Nera, tutte realizzate in un anno di grazia, il 1994.

In lui non vi è più timore di far entrare prepotentemente in campo anche il colore, e la prova sta in quello splendido Mediterraneo che conclude la nostra selezione e che sembra stizzar l'occhio di lontano ai sorprendenti, inziatici, Canti della terra.

Un'evocazione, quasi un riferimento alla culla delle grandi civiltà, una "ricostruzione" che ardisce tangenze con la linguistica Pop, a testimonianza della spregiudicatezza con la quale Merlo si sta muovendo e del rischio, tutto il rischio che accetta ogni giorno, di buon grado, percorrendo la sua strada come un equilibrista senza rete sul filo d'acciaio.

 

Vicenza, 9 febbraio 1999

 

 



[1] P.C. Santini, Introduzione a Catalogo della Seconda Biennale Nazionale di Incisione Alberto Martini, Oderzo, 1990

[2] L. Magagnato, Pittura, disegno, incisione, in Incisori del Novecento nelle Venezie tra avanguardia e tradizione, Venezia, 1983, p. 9

[3] L. Merlo, Imperturbabile ambiguità, Rebellato Editore, 1974

[4] J. Saramago, Manuale di pittura e calligrafia, ed. it. Bompiani, Milano 1984

[5] V. Kandinsky, Lo spirituale nell'arte, ed. it. SE, Milano 1989

[6] G. Perocco, Presentazione della mostra Le incisioni di Luigi Merlo, Noventa Vicentina, 1992.

[7] E' il titolo della mostra personale di L. Merlo tenutasi a Padova presso l'Oratorio di San Rocco dal 6 giugno al 5 luglio 1998

[8] M. Goldin, Da un cielo chiaro, in Luigi Merlo, incisioni e disegni, Treviso, 1993

[9] A.K.Cooramaswamy, La trasfigurazione della natura nell'arte, ed.it Rusconi, Milano 1976